Steve Jobs ha cambiato il mondo grazie ad un cartone animato.
Toy Story ha salvato la Pixar, resuscitato Jobs e cambiato la Silicon Valley. Tutto in 81 minuti d’animazione.
(1995) Steve Jobs entra in una sala buia, si siede al centro della fila e incrocia le braccia.
Sul grande schermo parte una scena strana: un cowboy giocattolo e un astronauta di plastica discutono su chi sia il preferito del bambino.
Jobs non sorride. Non piange. Non dice niente.
Ma dentro di sé lo sa: sta per cambiare tutto.
Non per la Pixar. Non per il cinema. Per lui.
Quello non è solo un cartone animato.
È la sua vendetta.
L’espulsione da Apple e il decennio nell’ombra
Dieci anni prima, nel 1985, Steve Jobs era stato cacciato dalla sua stessa azienda.
Apple, l’impresa che aveva fondato nel garage di casa con Steve Wozniak, lo aveva silurato come un impiegato qualunque.
Troppo arrogante, troppo imprevedibile, troppo giovane per gestire una multinazionale in crescita.
Per il mondo, era finita. Un altro genio incenerito dal suo stesso ego.
Ma Jobs non sparì.
Fece due cose che sembravano inutili a chiunque non fosse lui:
Fondò NeXT, un’azienda di computer ultra-avanzati che nessuno voleva comprare.
Comprò da George Lucas (Si, il George Lucas di Star Wars) una divisione tecnica per effetti speciali che chiamò "Pixar", e iniziò a bruciare soldi per creare cortometraggi animati.
Se NeXT era un capriccio da nerd, Pixar sembrava un disastro annunciato.
Pixar era una follia costosa. E stava per chiudere.
Per dieci anni, Pixar non generò un solo dollaro di profitto.
Jobs investì oltre 50 milioni nel progetto.
Nel 1994, disse a un amico:
"Se non vendiamo qualcosa entro il prossimo anno, chiudo tutto."
Il team composto da un pugno di ingegneri, animatori e visionari aveva un’idea folle:
fare il primo film completamente in computer grafica.
Una scommessa suicida.
I film d’animazione erano dominati da Disney, che da decenni produceva capolavori disegnati a mano.
E proprio Disney, ironicamente, era l’unica interessata al progetto Pixar. Ma pretendeva il pieno controllo creativo.
Jobs rifiutò. Voleva che fosse Pixar a firmare la rivoluzione, non Disney.
Così mise tutto in gioco: soldi, reputazione, il poco capitale emotivo rimasto.
E nel 1995 uscì Toy Story.

Jobs si riprende la scena.
Toy Story fu un successo colossale.
Critica entusiasta, pubblico impazzito, incassi stellari.
Ma per Jobs non bastava.
Lui non voleva solo l’applauso: voleva il potere.
E per ottenerlo, aveva bisogno di una cosa sola: la quotazione in Borsa.
Un giorno dopo l’uscita di Toy Story, Pixar fece la sua IPO.
Le azioni schizzarono del 2.400%.
Jobs diventò miliardario.
Il suo nome tornò a riempire le copertine.
Il “fallito” di Apple era ora il padre del primo film completamente digitale, l’uomo che aveva cambiato il cinema.
Ma sotto sotto, stava costruendo qualcosa di più grande.
Con i soldi di Pixar, Jobs rilanciò la sua immagine pubblica.
Con il sistema operativo di NeXT, aveva un’arma perfetta da offrire a chiunque stesse affondando nel mondo tech.
Indovina chi stava affondando?
Apple.

Il ritorno a Cupertino
Nel 1996, Apple comprò NeXT per 429 milioni di dollari.
Jobs tornò a Cupertino. Ma non come dipendente. Tornò da vincitore.
Aveva qualcosa che Apple non aveva più: una visione.
E con quella visione lanciò l’iMac, poi l’iPod, poi l’iPhone.
Ma nulla di tutto questo sarebbe esistito senza quel film.
Senza Woody.
Senza Buzz Lightyear.
Senza Toy Story.
Nel 2006, Disney acquistò Pixar per 7,4 miliardi di dollari. Steve Jobs divenne il maggiore azionista individuale di Disney.
Non era più solo un uomo della Silicon Valley. Era il re dell’entertainment.
Un ibrido tra Walt Disney e Thomas Edison.
Spesso non vince chi innova, ma chi ha emoziona
Tutti vogliono raccontare la storia di Jobs come quella di un visionario tech.
Uno che ha inventato il futuro con l’iPhone in mano.
Ma la verità è più assurda, più umana, più imprevedibile.
Jobs ha salvato la sua carriera non con un’invenzione tecnologica.
Ma con una storia.
Ha capito prima degli altri che l’emozione vince sull’innovazione, che il pubblico vuole narrazione, non solo performance.
E che anche se ti cacciano, anche se fallisci, anche se finisci nel buio... puoi sempre risorgere.
Magari in una sala cinematografica, con un bambino che guarda un cowboy di plastica e dice: “È il mio preferito.”